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Revenge Porn OnlyFans: ecco cosa stabilisce la Cassazione

La Cassazione, con sentenza n. 30169/2025, ha chiarito che condividere con terzi video o immagini provenienti da OnlyFans senza consenso integra il reato di revenge porn previsto dall’art. 612-ter c.p. Il consenso alla pubblicazione online, infatti, vale solo per i destinatari autorizzati e non può estendersi oltre.


Cosa si intende con revenge porn?

Cosa vuol dire questa sentenza della Cassazione? 

Quali sono le sanzioni previste? 


Io sono l’Avv. Penalista Giulio Cristofori e in questo articolo ti spiego cosa prevede la legge in tema di revenge porn, quali principi ha affermato la Suprema Corte e come questa decisione cambia la tutela della privacy e dell’intimità digitale.



Indice dei contenuti



Cos’è il reato di Revenge Porn secondo l’art. 612-ter c.p.

Il reato di revenge porn è disciplinato dall’art. 612-ter del Codice Penale, introdotto con la legge n. 69/2019 (il cosiddetto Codice Rosso), che ha avuto come obiettivo principale quello di rafforzare la tutela delle vittime di violenza di genere e di reati commessi attraverso strumenti informatici.


L’articolo in esame punisce chiunque, dopo aver ricevuto o comunque acquisito immagini o video a contenuto sessualmente esplicito, li diffonda, consegni, invii, pubblichi o ceda a terzi senza il consenso della persona ritratta, con l’intento di arrecare nocumento


La pena prevista va da uno a sei anni di reclusione, oltre a una multa da 5.000€ a 15.000€, con aggravanti in caso di diffusione online, di vittime minorenni o di relazioni affettive pregresse tra autore e persona offesa.


L’obiettivo della norma è proteggere la libertà sessuale e la dignità personale, riconoscendo a ciascuno il diritto di decidere chi può vedere o possedere le proprie immagini intime.


Facciamo un esempio. 

Pensiamo all’invio “per scherzo” in una chat di amici. Condividere un’immagine privata ricevuta da un partner o visualizzata su un profilo riservato (ad esempio su OnlyFans) in un gruppo Whatsapp o Telegram è comunque un reato, anche se fatto “per ridere” o “senza cattive intenzioni”. Il dolo specifico richiesto non implica necessariamente vendetta o odio: basta la consapevolezza di arrecare un potenziale danno alla riservatezza della persona.






La sentenza della Cassazione n. 30169/2025: il consenso non è illimitato

Con la sentenza n. 30169/2025, la quinta sezione penale della Corte di Cassazione ha fissato un principio fondamentale per l’interpretazione del reato di revenge porn nell’era digitale: il consenso espresso su una piattaforma come OnlyFans non si estende oltre i destinatari autorizzati


In altre parole, chi scarica, inoltra o mostra a terzi un contenuto pubblicato su un profilo OnlyFans, anche se lo ha legittimamente visualizzato come abbonato, commette un reato ai sensi dell’art. 612-ter c.p.



La vicenda

Un video a contenuto sessuale, originariamente condiviso in un ristretto contesto privato tra tre persone, era stato successivamente inoltrato a un conoscente estraneo senza il consenso della donna ritratta. In primo grado l’imputato era stato condannato, ma la Corte d’appello di Milano aveva poi dichiarato la non procedibilità per tardività della querela, sostenendo che la persona offesa fosse già a conoscenza della diffusione del materiale. 


La Cassazione ha ribaltato questa interpretazione, evidenziando due punti centrali:


  1. il reato di revenge porn si consuma al momento del primo invio non autorizzato e non in occasione di precedenti condivisioni lecite o consensuali;

  2. il consenso originario alla condivisione del contenuto (anche se espresso su una piattaforma a pagamento) non giustifica ulteriori diffusione o inoltri a soggetti estranei.


Nel caso esaminato, la Corte ha rilevato un “errore di prospettiva ermeneutica” da parte della Corte d’appello, che aveva retrodatato la decorrenza del termine di querela al momento della prima condivisione consensuale, mentre il reato si era consumato solo con l’invio a un soggetto non incluso nel consenso originario. 




Decisione e motivazione della Cassazione

La motivazione della sentenza è particolarmente significativa perché chiarisce la natura istantanea della condotta e definisce con precisione i limiti del consenso digitale


Secondo la Suprema Corte:

«Integra il delitto di diffusione illecita di immagini o video sessualmente espliciti la condotta di chi, avendo ricevuto materiale pubblicato su un social network come OnlyFans, lo trasmette a terzi senza il consenso della persona ritratta, in quanto il consenso espresso è circoscritto alla facoltà di visualizzazione del solo destinatario autorizzato».


Questa affermazione rappresenta un precedente importante. Per la prima volta la Cassazione riconosce esplicitamente che la pubblicazione di contenuti intimi su piattaforme digitali non implica la rinuncia alla tutela penale.


Anche se il materiale è accessibile a pagamento o pubblicato dall’interessato, chi lo redistribuisce viola la legge. La decisione ha un impatto rilevante per creator, influencer e utenti di piattaforme come OnlyFans, dove il confine tra pubblico e privato è spesso sottile.

Il messaggio è chiaro: il consenso a mostrare un contenuto non equivale al consenso a diffonderlo. L’autodeterminazione sessuale e il diritto alla privacy restano intatti anche nel contesto digitale, e ogni abuso nella circolazione dei contenuti è penalmente sanzionato.


Inoltre, la Cassazione ha disposto la trasmissione del procedimento alla sezione civile competente, riconoscendo la possibilità di un risarcimento del danno in favore della persona offesa, sia per la lesione della reputazione sia per la violazione del diritto alla riservatezza.




Perché questa sentenza è così importante 

Si tratta di una pronuncia che consolida l’orientamento della giurisprudenza italiana in materia di violenza digitale e di diritto all’intimità online, ponendo l’accento sul valore del consenso informato e sulla responsabilità individuale nell’uso dei contenuti sensibili.


In sintesi, la Corte ha ribadito che:


  • la pubblicazione su piattaforme a pagamento non equivale a un consenso generalizzato;

  • la diffusione non autorizzata integra il reato di revenge porn anche se effettuata “in buona fede” o senza finalità di vendetta;

  • il termine di querela decorre dal primo invio illecito;

  • la tutela penale e civile spetta pienamente alla vittima, indipendentemente dal mezzo digitale utilizzato.


La sentenza n. 30169/2025 rappresenta dunque un passo fondamentale verso una concezione moderna del diritto penale, un diritto che riconosce e protegge la dignità digitale della persona, estendendo la sfera del consenso anche agli ambienti virtuali in cui la vita privata si intreccia con l’attività online.


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Revenge porn e responsabilità delle piattaforme online

La sentenza n. 30169/2025 della Cassazione pone una domanda cruciale: quale ruolo hanno le piattaforme digitali nella prevenzione e nella rimozione dei contenuti diffusi illecitamente?

Sebbene la responsabilità penale resti personale, i gestori dei servizi online sono tenuti (secondo il Digital Services Act e il GDPR) a predisporre procedure rapide di segnalazione e rimozione, a collaborare con le autorità giudiziarie e a tutelare la privacy degli utenti.


Piattaforme come OnlyFans dichiarano di adottare sistemi di monitoraggio e blocco dei contenuti illegali, tuttavia la diffusione non autorizzata resta difficile da contenere: basta un singolo download o inoltro per rendere il danno potenzialmente irreversibile.


Per questo motivo la Cassazione ha richiamato la necessità di un approccio condiviso tra diritto e tecnologia, dove prevenzione e responsabilità individuale procedano insieme.

In sintesi, la pubblicazione online di contenuti intimi (anche su piattaforme a pagamento) non elimina il diritto alla riservatezza.


Chi li diffonde senza consenso risponde penalmente, mentre le piattaforme devono garantire strumenti efficaci per limitare la circolazione dei materiali illeciti. È una tutela che non riguarda solo le vittime, ma la dignità digitale di chiunque utilizzi il web in modo consapevole e rispettoso.



Come difendersi dal revenge porn

Subire la diffusione non consensuale di immagini o video intimi è un’esperienza profondamente invasiva, che può avere conseguenze gravi non solo sul piano personale, ma anche psicologico e professionale. Tuttavia, la legge oggi offre strumenti efficaci per reagire e tutelarsi.


La prima cosa da fare è non cancellare le prove: chat, link, screenshot e qualsiasi elemento che dimostri la diffusione del materiale sono fondamentali per identificare i responsabili.

Occorre poi presentare querela entro sei mesi dal fatto presso le autorità competenti (Polizia Postale o Procura della Repubblica), allegando tutti i riferimenti disponibili. Parallelamente, è possibile chiedere la rimozione immediata dei contenuti alle piattaforme coinvolte. Il Digital Services Act e le politiche interne di siti come OnlyFans prevedono canali dedicati per segnalare materiali pubblicati senza consenso. In caso di inerzia o ritardo, la vittima può rivolgersi al Garante per la protezione dei dati personali o ottenere un provvedimento d’urgenza dal giudice.


Infine, è consigliabile rivolgersi a un avvocato penalista esperto in reati informatici, in grado di gestire la procedura penale, coordinare le richieste di rimozione e valutare un’azione risarcitoria.



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Domande frequenti 

Cosa significa in italiano revenge porn?

Letteralmente si traduce con “pornografia della vendetta”. Si tratta di un fenomeno che indica la diffusione o condivisione non consensuale di immagini o video a contenuto sessuale, con lo scopo o l’effetto di arrecare danno alla persona ritratta.

Come si denuncia il revenge porn?

La denuncia avviene tramite querela della persona offesa, da presentare entro sei mesi dal fatto alla Polizia Postale o alla Procura della Repubblica. È importante conservare prove come screenshot, link o chat e rivolgersi a un avvocato penalista per l’assistenza nella procedura.

Cosa si rischia per revenge porn?

Il reato di revenge porn (previsto dall’art. 612-ter c.p.) è punito con la reclusione da uno a sei anni e con la multa da 5.000€ a 15.000€. Le pene aumentano se il fatto è commesso da un ex partner, tramite strumenti informatici o ai danni di persone vulnerabili.


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